mercoledì 31 luglio 2013

SOLI D'ESTATE

Amo le estati della città senza mare,
i morsi sul collo del sole
e le ombre dei palazzi
che ricamano l'asfalto.
Saracinesche abbassate,
badanti straniere sugli autobus
che traducono Italiani,
vecchi che vanno nei cimiteri
a misurarsi le tombe,
turisti che chiedono
informazioni alle statue,
giocatori di cavalli
che aspettano di partire,
assassini in vestaglia sul balcone
che ascoltano Beethoven,
l'erba che rinasce
ovunque ci sia pace.
Le ceste di paglia scendevano attaccate ai fili
e un bambinone tutto contento e bianco
metteva dentro le pagnotte alzando il capo
verso le donne come fosse quasi partecipe
del loro casalingo arredo.
Davanti al Tabernacolo alcune facevano segni al petto,
sedute con le mani legate da un rosario,
qualche silenzio e poi ripartivano tutte insieme
nel solito versetto chiudendo gli occhi
quando una più giovane restava indietro
nel dolcissimo sguardo sui bambini
che  correvano dietro ai balzi della palla.
Sotto la scalinata la fontanella balbettava incerta.
Intorno un ritrovo di donne girava sulla piazzetta
cercando riparo nelle ombre delle bancarelle
da cui gli urlatori rialzati su una scaletta scaricavano
come un fil di massa le orazioni sediziose.
Il parapetto del vicolo scendeva lentamente
scoprendo le terrazze di tufo sul pendio panoramico
della canicola eterna da cui sgorgava un bitume assai scuro
che liquidava la luce nel valletto  gramigno ben degno.
Per conduzione,tra i rovi,le placche della citta antica
son riparo di vecchi fiori e insetti ubbidienti a quel colore
che selvaggio spara un palpito di protezione alla solitudine
delle pietre asservite a rami e paglie.

La gioia mi veniva incontro sul marciapiede
come fosse un vischio,quasi umano,trasparente,
un brivido che dai reni sorgeva al collo
come l’overture di Silla o un riff di Vivaldi.
La padrona di casa si mise a cantare,
sul suo volto un principio d'amore
oltrepassò il mio sguardo
trafitto dall’infinita estate.
L'erezione accelerò
il rantolo di pazzia
e la tirai a me come
la solitudine stringe
il margine infinito.
Si sciolsero i capelli neri,
il bucato precipitò dalle scale.
E mentre cercavo la sua lingua
il seno scatenò sul mio petto
la prima giovinezza di turgido focolare.
Cosi iniziarono le nostre carni a tremare
baciando ogni cosa nel silenzio dell’intesa
per le voci più basse che andavano in ferie.
Finchè mi sbottonò e nel ventre suo mise
tutto quel che io potevo dare.
Il suo e il mio piacere
scivolavano sul marmo
bianco esagerato.

Come al tempo conviene che torni
la lussuria tra le malte geologiche,
una bestia sociale che ha memoria
di coda e ornamento di foia.



LUGLIO 2009

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